Contatti indicibili
Maria Chiara Wang
nasce come manifesto per un ritorno alla percezione, alla riscoperta di quell’insieme di sensorialità, sensibilità e istintività quali elementi fondamentali per instaurare un dialogo con l’opera; in tale scambio non servono le parole a spiegare il contenuto, occorre altresì una giusta predisposizione d’animo. L’indicibile diventa, in tal modo, il sistema entro il quale i dati sensoriali acquisiscono significato riuscendo a concepire ciò che non si lascia dire. L’atto conoscitivo che ne risulta è dinamico e aperto anche alle contraddizioni, all’inaspettato, al dissonante a ciò che si emancipa da schemi e categorie. “L’arte con la sua fisionomia plurale”[1] diventa il linguaggio che ci apre all’indicibile traducendo il pensiero in emozione.
E il contatto? È l’immediatezza, ovvero l’assenza di media tra soggetto e oggetto artistico, è l’esperienza che si ha degli altri corpi e di noi stessi nel medesimo momento, ma è anche la compressione dello spazio e del tempo come nel caso della mostra allestita presso il Museo Civico Medievale di Bologna ove l’arte contemporanea viene affiancata ai manufatti medievali secondo un accostamento apparentemente inconciliabile, articolato e complesso reso però possibile dal tessuto delle relazioni sottese.
Le opere di Giovanna Caimmi dialogano con quelle di Giulia Dall’Olio e con l’ambiente circostante attraverso il racconto di una natura incontaminata, lussureggiante, a tratti romantica, una natura che nei secoli è stata spesso custode di quei reperti di epoche passate riemersi nel tempo e custoditi nelle sale del Museo.
In particolare, Giovanna Caimmi affianca alla qualità pittorica dei disegni il lavoro di ricerca e di archivio; è così che in mostra accosta ai grovigli naturali modellati con matita e carboncino su carte veline sovrapposte, Tiber, un’installazione che racchiude e condensa in sé l’indagine d’archivio storico-artistica che ha condotto su un triplice fronte: quello dei Deutsch-Römer, artisti tedeschi venuti in Italia affascinati dal mito di Roma e della nostra Penisola, quello relativo alle vicende del giovane Carl Philipp Fohr annegato nel Tevere nel 1818 e quello autobiografico. L’elemento che accomuna la produzione dell’artista cesenate, sia in seno alle singole opere che trasversalmente all’intero corpus dei suoi lavori, è l’affastellamento, la ridondanza di linguaggi, media e segni; ciò determina un surplus rumoroso che unitamente al peso e alla consistenza delle carte e degli elementi contenuti nell’installazione conferisce una qualità sinestetica ad ogni sua creazione.
Giulia Dall’Olio, invece, espone – oltre ai suoi celebri e caratteristici lavori in bianco e nero – una nuova serie di opere nelle quali entra significativamente in scena il Blu come tributo a un’epoca, quella medievale, che, a partire dal XII secolo, impiega tale colore in maniera iconografica e simbolica assegnandogli, data la sua rarità, un valore spirituale e divino. Inoltre, come scrive Pastoureau[2], il blu è “luce sui cui s’iscrive tutto ciò che è creato”: quale sfondo allora risulta più adatto per mettere in risalto una natura selvaggia e rigogliosa ritratta con un segno che si fa via via più libero e istintivo? Nei disegni di Dall’Olio il colore diviene la scenografia dove prende corpo la drammaturgia del gesto, è la materia dalla quale l’artista come uno scultore, fa emergere la vegetazione attraverso l’uso di cancellature con tecnica a levare.
[1] Franco Cambi, Riflessioni sull’ “indicibile”, MeTis Journal, Anno VI, Numero 2, 12/2016
[2] Michel Pastoureau, Blu. Storia di un colore, Adriano Salani Editore, Milano, 2002