UN CANONE PER L’ASSENZA
Giusppe Fonseca
Scrive Michel Foucault che accanto alle utopie, formate da “paesi senza luogo e storie senza cronologia” di cui è impossibile trovar traccia “perché non appartengono a nessuno spazio”, vi sono luoghi che si configurano come “utopie situate”, “contro-spazi” che differiscono da tutti gli altri divenendo “contestazioni mitiche e reali dello spazio in cui viviamo (…) spazi assolutamente altri”: etero-topie.
Da qui, dalla concreta possibilità di far oggetto, di “far scienza” come dice ancora Foucault, di un luogo reale fuori da ogni luogo, vogliamo partire per pensare il lavoro di Giovanna Caimmi che anche da quel testo trae nome e linfa vitale.
La prima evidenza è la scelta del medium. La cattura di immagini rubate al reale via l’immediatezza dei frame di una telecamera digitale e successivamente sottoposte ad elaborazione pittorica, segna il passaggio dallo sforzo di ripensare le tecniche plastiche classiche alla pratica di alterare, sacrificare la più moderna delle tecnologie per la produzione di visioni.
Al nostro sguardo si apre il frutto di un lavoro che nel corso del tempo si è sempre più concentrato sulla rappresentazione dei corpi e sulla riscrittura dello spazio che occupano, in una sorta di continuo processo di sottrazione di porzioni d’immagine al fine di estenderne percezione (sguardo) e giurisdizione (territorialità).
Nelle sue Eterotopie Giovanna Caimmi sembra aver metabolizzato una vocazione barocca, dandole dimora nell’eco di una pittura che si fa spazio su di una superficie costituita da un proliferare di frammenti, da una trama di pixel traslucidi che in un infinito inseguirsi di pieghe e fratture ricompone un’immagine figlia di un processo eminentementedigitale.
La piega è divenuta elemento radicato in superficie, ché se il canone barocco sta nella ripetizione armonica e asincronica della medesima struttura, qui lo sguardo deve misurarsi con un ente che è sì il medesimo, ma colto in pose successive e quindi in differenti configurazioni in una rappresentazione che nella sua sincronicità provoca una continuadistrazione dello sguardo. È un universo privo di universalità, ma animato dall’“ubiquità del vivente” per dirla con Deleuze. È lo sguardo della bimba di Sliding tagliato, nel suo inseguire la fuga e il gioco dell’amica, dalle due lame rosse dello scivolo, parallele e speculari.
Assistiamo al divenire cronico dell’infinito proliferare dello spazio barocco. Non è un caso che al lavoro visivamente più ricco e complesso di questa nuova serie sia stato dato il medesimo titolo, Sguardo d’Oriente, di quello che nella minimale evanescenza delle figure, nel loro ripetersi in dissolvenza aveva segnato il punto limite dell’esperienza plastica.
È come se la frattura che sembra togliere il terreno sotto i piedi già in delicato equilibrio delle piccole ballerine cinesi, fosse annuncio della geometrica frammentazione della nuova superficie destinata ad accogliere il gesto dell’artista.
Ma vi è un altro elemento che nella distanza sembra unire le prime opere alla nuova scelta espressiva.
Il bianco.
Quel bianco che sempre riusciva a farsi strada tra gli ossidi e lo smalto del primo Sguardo ad Oriente come del primo Sliding esplode definitivamente negli ultimi olî.
Vi è bianco nella sequenza, immagine a metà strada tra il realismo immaginifico di Mario Giacomelli e la cronofotografia di Eadweard Muybridge, della sposa di Mariage Bluee nel suo liquido abito; vi è il bianco che delinea, divora e metabolizza i corpi in Wandervogel per giungere alla sua più completa sintesi in Sophia trova il bianco, dove la luce prende forma dal piedino tratto dall’acqua.
Ed è questo forse il primo elemento che ci sorprende ancor prima di coglierlo, nelle immagini di Giovanna Caimmi. In ogni sua opera vi è sempre un prender forma dell’invisibile.
La candida campitura del bianco che abita i luoghi altri di un tempo impossibile da misurare, diviene forma. Dove di norma vi è una assenza in attesa d’esser riempita, una tela resa bianca per poter distendere il colore, vi è qui lo sfondamento del lucido che mostra il senso di continuità del racconto proprio lì dove sembra aprirsi la cesura. Nel bianco.
Il bianco, lo sappiamo, è vibrazione che accoglie tutti i colori, è luce, piena.
Eppure è, allo sguardo, anche rappresentazione del vuoto, pura sublimazione del nulla.
Eppure è, allo sguardo, anche rappresentazione del vuoto, pura sublimazione del nulla.
È in pittura quel “puro fuori” che Foucault riconosceva nella letteratura di Maurice Blanchot, “non verità che s’illumina, ma scintillio e miseria di un linguaggio che è da sempre già iniziato”, “ascolto non solamente di ciò che è pronunciato in esso, ma del vuoto che circola tra le sue parole”, per parafrasi in pittura: visione non solo di ciò che è rappresentato, ma immagine di ciò che è limite estremo della visione. È la memoria dell’angelo prima della caduta in Angel’s performance in St. James Park o la definitiva dissoluzione dei corpi nella perfetta e stellare geometria della Maison du Tantra. I colori hanno oramai virato verso un acido che divora i fogli e con essi i possibili residui di qualsiasi iperrealismo digitale.
Il processo della creazione si compie, e vi è qualcosa di originariamente espressionistico in questa volontà di percorrere i confini e di riscrivere il canone del proprio medium.
Vi è un rigore dodecafonico nelle sequenze che animano questa polifonia di corpi e di immagini. La realtà viene riscritta ridisegnando il tempo, ponendo la sequenza nella simultaneità.
Vi è una volontà di eterno in questo gesto, un eterno niente affatto mistico, ma radicalmente i mmanente che fa della contemporaneità il proprio tempo e il proprio ritmo.
Che fonda il luogo assolutamente altro dove anche Sophia potrà trovare un canone dell’assenza, il prisma che le aprirà l’iride infinita del bianco.
Napoli, 2 ottobre 2006