IL MALE DEGLI ARDENTI –  LA VERSIONE DI BOSCH
Beatrice Buscaroli

C’è un personaggio a dir poco singolare che compare in alcuni film di David Lynch.
Poche sequenze, in Twin Peaks o in Mulholland Drive, nelle quali un nano, con gesti meccanici e con voci stridule, sembra introdurci, o avvicinarci, ad una dimensione narrativa insospettata, sorprendente, unheimlich. Lynch è il regista che forse più di ogni altro è stato capace di investigare le variabili di un sentimento, attivo o passivo, che scandaglia le dimensioni più recondite della creatività.
Ma è quell’azione “sentimentale” a generare una relazione con i processi di una rappresentazione estremamente ambigua. Come dire: c’è una volontà senza rappresentazione e una rappresentazione senza volontà; l’arte e la dimensione prosaica del “sentire” generato dalla visione. Insomma, come aveva ben capito Einstein, la posizione dell’osservatore condiziona l’esperimento. Ebbene, il nano di Lynch è il soggetto che, introducendosi in sogno con la cantilena che recita: « Nell’oscurità di un futuro passato il mago desidera vedere. Non esiste che un’opportunità tra questo mondo e l’altro. Fuoco, cammina con me », fornisce all’agente Cooper una serie di tracce, di indizi, di orme, che gli permetteranno di avvicinarsi all’identificazione dell’assassino di Laura Palmer.
Lo stesso nano – o meglio lo stesso attore – è quello che permette alla donna – o meglio alla coppia di donne – di dischiudere la scatola blu, e i suoi segreti, in Mulholland Drive. Una sorta di “conduttore di anime” (in termini antichi lo “psicopompo”) che pare indicare una strada per conferire un senso a una realtà disordinata e densa di “fatti” irriducibili a un denominatore comune. Un Doppelgaenger, un sosia, che ci affianca per mostrare una rotta possibile, per quanto impervia, esoterica, simbolica.
Anche nella pittura di Bosch, e in particolare nel trittico dedicato alle Tentazioni di Sant’Antonio, compare una figura analoga. Nell’ anta dedicata alle Meditazioni del santo, una figura attonita, sbigottita, pare assistere impotente all’ultima della tentazioni, quella del pane e del vino. Quasi a sottolineare che tra la lussuria e il sacrificio, tra peccato ed espiazione, sussiste una relazione arcana, dove interiorità ed espressione si toccano, si intersecano.
Il progetto che origina l’installazione di Giovanna Caimmi sembra giocare su questa duplicità ambigua, su queste interferenze, sulle ambivalenze che il fenomeno della rappresentazione genera.
Sullo sfondo del velo di Maya dell’opera di Bosch si aprono varchi, finestre che ospitano sequenze di immagini. Sequenze che dispiegano possibilità di lettura, emersione di eventi, nodi che riassemblano “fatti” in apparenza isolati. La rappresentazione si “apre” ad accogliere nuove emozioni, nuovi sentimenti. Non solo: ma genera anche una sorta di “museo immaginario” all’interno del quale ritrascrivere l’ossessione cui le immagini danno origine. Fino al punto di “citare” la visione del più esoterico degli assemblaggi di Duchamp: il corpo della vergine-sposa esaltato in Essendo dati la caduta dell’acqua e il gas d’illuminazione. E, di fronte a quei “fotogrammi” che prendono ad animarsi, giacciono, freddi, immoti, muti, i protagonisti di quelle azioni. Un bosco (d’altra parte il progetto è ispirato alla visione di Bosch) plastico che presenta gli attori di quegli eventi, il “cimitero delle livree” dei pretendenti celibi del Grande Vetro di Duchamp. O, forse, la visualizzazione di un sogno che agita ogni certezza della rappresentazione. Poiché, come recita sempre il nano di Lynch, «Viviamo in un posto dove gli uccelli cantano un grazioso motivo e c’è sempre tanta musica nell’aria».
La complessa installazione di Giovanna Caimmi sembra sintonizzarsi sull’ansimare di un respiro misterioso, che aggiungendosi agli altri misteri, anima l’opera di questo artista di cui quest’anno cade il centenario. Dunque, se da una parte il suo occhio filologico e penetrante insieme, accentua ed espande momenti minimi, particolari o personaggi, fino a farli diventare frame di rapidi video, visioni veloci e quasi incomprensibili, troncate proprio nel momento di una possibile risoluzione, che oniricamente sembrano espandere il pensiero di un artista che aggiunge il suo a quello di un altro, ma non lo spiega, lo accoglie e lo ascolta.
Dall’altra parte, altri ancora seguono il percorso inverso, esistendo e formandosi, incarnandosi in oggetti di ceramica che sembrano rivendicare una nuova vita. E’ come se uscissero da un gesto, che apre e chiude ante segrete che solo un altro artista può vedere e interpretare. Così l’opera di Giovanna Caimmi acquista il misterioso incanto di un ulteriore segreto, quasi che dai “grilli” antichi potessero nascere e originarsi, quasi per autonoma volontà, altri esseri. Farfalle e pavoni, fiori, vegetali inesistenti, ominidi minuscoli che ricercano l’uovo originario, cristalli, forme geometriche misteriose che sembrano sul punto di generarsi e realmente uscire dal quadro: è come se non riescano a stare dentro quell’immenso mistero del pittore olandese e debbano mostrarsi per quello che sono. Non più solo piccoli misteri, dunque. La serie di disegni, complessa sequenza dove il segno si rincorre di foglio in foglio, sono principio e fine di questo processo. Non sono preparatori, sono una sorta di commento dipinto, quasi che, una volta ancora, il quadro si faccia concavo per farsi leggere nelle viscere.
Lo seguono, come lo seguono le parole, lo arricchiscono a volte, sono oggetto, di lunghi e solitari pensieri che sembrano esserci posti in ascolto e spiegare. Spiegare l’inspiegabile, provarci.